La Profezia di Gioacchino
Un’antica leggenda popolare narra che a scegliere il luogo sul quale poi è sorto l’abitato di San Giovanni in Fiore fosse stato lo Spirito Santo in persona, il quale servendosi di due magnifici giovenchi neri ed un aratro, abbia indicato al suo profeta Gioacchino da Fiore, il luogo esatto dove posare la prima pietra di una grande chiesa a forma di croce che in mezzo alla boscaglia silana potesse costituire un accogliente rifugio per tanti uomini bisognosi di incontrare e pregare Dio.
I fatti andarono pressapoco così:
Un giorno lontano del 1189, Gioacchino da Fiore, monaco cistercense del monastero della Sambucina di Luzzi, nel suo colloquio mattutino con lo Spirito Santo, manifestò il desiderio di appartarsi in un luogo isolato dove potersi dedicare con più impegno alle contemplazione di Dio e meditare sul contenuto delle Sacre Scritture. Lo Spirito Santo ritenendo validi i proponimenti di quel santo monaco che ogni mattina si abbandonava in fervida e cocente preghiera, gli fece trovare daccanto due magnifici bovi aggiogati ad un aratro.
-Seguili con umiltà e in preghiera e loro ti indicheranno il posto che tu cerchi. Non fare uso del pungolo. Basta soltanto la tua voce e i giovenchi ti tracceranno la strada della tua nuova dimora- disse lo Spirito Santo.
Poi quello strano convoglio attratto dall’invincibile forza di una volontà suprema si mise in cammino per le foreste della Sila, valicando montagne e attraversando pianori.
Man mano che avanzava altri seguaci si unirono a Gioacchino da Fiore, tant’è che dopo alcuni giorni un nutrito gruppo di persone si ritrovò nella località di “Jure Vetere”, dove i buoi stanchi ed affamati cercarono riposo lungo gli argini del fiume Arvo.
Convinti che quello fosse il posto scelto dallo Spirito Santo, Gioacchino da Fiore e i suoi uomini si misero all’opera per costruire un eremo nel quale rifugiarsi dal freddo e difendersi dai lupi che infestavano i boschi circostanti.
Ma a metà giornata i due giovenchi si alzarono e ripresero, con stupore dei presenti, a camminare lungo un viottolo che portava verso la valle delle Junture.
-Non è questo evidentemente il posto voluto dello Spirito Santo-, disse Gioacchino ai suoi seguaci e prese la corda che pendeva al centro del giogo, spinse con la sola voce i due animali verso la nuova méta. Cammina, cammina, il convoglio giunse in prossimità del Neto e dell’Arvo. Qui l’ardimentoso servo di Dio scruta la campagna come per cercare il posto ove più chiaro si gode il sorriso del sole. Sosta, alza lo sguardo verso l’azzurra volta del cielo ed apre le braccia, per accogliere in un sublime abbraccio quei fratelli che informati dell’arrivo in Sila del mistico profeta, erano andati al suo incontro muovendo da Cerenthia e dai casali di Cosenza.
Esausto per la stanchezza, sul fare della sera, Gioacchino da Fiore si addormentò, ma al mattino lo Spirito Santo gli si presenta sfolgorante e sorridente dall’alto del suo trono, come un sole nascente. -Su questa collina tu costruirai la mia chiesa e in essa accoglierai quei fratelli che, deposto il coltello omicida, impugneranno le armi benedette della vanga e dell’aratro-, così dicendo lo Spirito Santo ordinò ai buoi di tracciare con l’aratro il disegno di una grande croce sul pianoro della collina detta “Jure Novo”.
-Domani inizierai a costruire nella saldezza millenaria del granito un vasto tempio che sarà faro ideale di fede che illuminerà le vie della pace, dell’amore e della fratellanza, a tutta l’umanità disorientata.
Poi prendendo commiato dal monaco, lo Spirito Santo disse: -Intorno al tempio sorgerà più il là un paese che si chiamerà San Giovanni in Fiore. Il suo territorio avrà forma triangolare e sarà il paese della Santissima Trinità. I suoi abitanti però non dovranno mai varcare con la costruzione delle loro case le sponde dei fiumi Neto ed Arvo. Disobbedendo a questo volere, l’intera cittadina perirà in seguito a violento terremoto.
Gioacchino da Fiore informò di questa profezia i suoi confratelli, i quali la tramandarono a loro volta agli altri monaci che seguirono, sicché la popolazione preferisce etendere il centro abitato verso la parte alta, inerpicando le case su uno scosceso pendio.
La Barba di San Biagio
Anticamente San Biagio era ritenuto dal popolo di San Giovanni in Fiore il santo più buono del Paradiso, in quanto secondo una leggenda egli liberò un bambino da una spina conficcata in gola mentre stava mangiando una sarda salata.
Da allora il Santo di Sebaste, in Armenia, venne considerato da tutti il Santo protettore contro il mal di gola tant’è che il 3 febbraio di ogni anno, ossia il giorno dopo la Purificazione, egli viene festeggiato in numerosi comuni della Calabria.
Ma da quando a San Biagio bruciò la propria chiesa, posta ad un tiro di schioppo dalla piazza, il comportamento del Santo è notevolmente cambiato, per lo meno a San Giovanni in Fiore.
-è arrabbiato- dice Caterina Ventura -perché da quando non ha più la propria chiesa e viene esposto quà e là nelle nicchie lasciate momentaneamente vuote dai Santi, che vengono esposti nello “spunasanti” (nicchia dove viene esposto il santo da festeggiare) è diventato nero in volto e guarda tutti con severità.
Infatti San Biagio, raffigurato da una statua in bronzo che porta in testa la mitra e fra le mani il pastorale d’argento perché era un vescovo, sembra voler rimproverare tutti i cittadini di non aver mosso un dito la notte dell’incendio per paura di finire in mezzo alle fiamme.
Ora si racconta che il Santo, per ricordare a tutte le generazioni di sangiovannesi l’affronto subito, minacci -ogni anno- toccandosi la barba, grandi nevicate nella notte tra il 2 e il 3 febbraio.
-Se San Biagio questa notte si toccherà la barba, domani avremo neve e null’altro!- dicono le anziane del paese.
E infatti la neve è sempre puntualmente caduta, anche se i giorni precedenti a questa data, erano giorni tipicamente primaverili. -Se San Biagio si tocca la barba ci costringerà a bruciare le doghe del barile per poterci riscaldare- aggiungeva qualche vecchietta preoccupata di aver finito le legna da ardere e di non averne comprata dell’altra, convinta forse che la primavera sarebbe di lì a poco venuta.
Malgrado tutto ciò il grosso della popolazione è sempre andato a pregare San Biagio il giorno in cui viene festeggiato e, considerato che il mese di febbraio è un mese corto ma nello stesso tempo freddo e quindi portatore di acciacchi ed influenze varie, gli anziani del paese nella speranza di tenere lontano bronchiti e febbri varie, si lasciano ungere per prevenzione la parte esterna della carotide con l’olio benedetto, attribuendo così al Santo, protettore del mese di febbraio, poteri miracolosi sulla salute.
Questo è anche un modo per tentare di fare la pace con un Santo che l’anno prossimo, il 3 febbraio, potrebbe toccarsi la barba e quindi coprire tutti di neve per parecchi giorni.
Il Lupo Mannaro
Molto, molto tempo fa, nelle notti fredde, quando il vento sibilava tra gli infissi sgangherati delle vecchie case, andava in giro per le zone buie del paese, il lupo mannaro.
Aveva la testa di lupo, le mani pelose, le unghie dure e nere e si reggeva sulle zampe posteriori, camminando come le persone. Si diceva, infatti, che egli fosse un uomo che in determinati periodi dell’anno, nelle notti di novilunio con la luna completamente invisibile, si trasformava da persona a lupo mannaro.
Il suo nome era Feliceantonio Cucumella e faceva il guardiano in una vecchia fattoria di Nocella. Questi durante un anno di freddo intenso e di abbondanti nevicate rimase per un lungo periodo di tempo isolato in Sila, in compagnia di un giovane stalliere che in seguito ad una malattia improvvisa un giorno morì e il suo corpo rimase nella neve per oltre quattro mesi prima di essere sepolto.
Finite le provviste Feliceantonio Cucumella, per sopravvivere alla fame, fu costretto a mangiare carne umana e così da quella volta si buscò la maledizione divina e assunse caratteri demoniaci, diventando appunto un lupo mannaro.
La moglie e i figli che vivevano con lui, quando egli faceva ritorno in paese, si accorsero della sua trasformazione una notte d’inverno, quando all’improviso prese ad emettere prolungati ululati e man mano il suo corpo si trasformava in bestia carnivora.
Terrorizzati da quella metamorfosi trovarono riparo in un sottoscala nel quale si richiusero per tutto il resto della notte.
Il lupo mannaro lasciò, invece, di lì a poco la sua abitazione e si dileguò per le strade del paese in cerca delle sue vittime. Più di una persona cadde tra i suoi artigli, fino a quando si sparse la voce della sua presenza in paese e così la gente nelle notti di novilunio o non usciva più o se era costretta ad uscire lo faceva in compagnia di altre persone, per cui il lupo mannaro si guardava bene dal farsi avanti e per tutta la notte poi era difficile per lui trovare prede isolate da azzannare.
Non appena il sole sorgeva dietro le montagne di Gimmella, ai primi albori dell’alba egli faceva ritorno alla propria casa e riprendeva la forma e i lineamenti umani con i quali era conosciuto da tutti.
La paura del lupo mannaro continuò ad opprimere la gente di San Giovanni in Fiore, fino alla fine del 1893, anno in cui la morte colse nel sonno Feliceantonio Cucumella, stremato da un ruolo nel quale era stato condannato da una maledizione divina.
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[templatic_contentbox type=”normal” title=”Saverio Basile.“] Giornalista-pubblicista.
Ha pubblicato: “La Sila”, “Aria di casa nostra”, “Ricerca bibliografica sulla Sila e San Giovanni in Fiore”, “Scippaporta”. Ha avuto assegnato il premio della Cultura dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri negli anni 1970, 1973 e 1978. Ha vinto il II Concorso Giornalistico Nazionale indetto dalla Pro-Loco di Camigliatello (1982). E’ risultato vincitore di uno dei premi sulla sicurezza stradale, conferiti nel 1984 dal ministero dei Lavori Pubblici.
Successivamente ha pubblicato “Ritorno al passato”, “Le chiese di San Giovanni in Fiore”, “Bibliografia Florense”.
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Ringraziamo Saverio Basile per averci concesso la pubblicazione di queste storie.